Si tratta di un lavoro di Anna Lipińska e Leopold von Tadden per conto della BCE denominato: MONETARY AND FISCAL POLICY ASPECTS OF INDIRECT TAX CHANGES IN A MONETARY UNION.
L’attività del governo Monti è stata largamente ispirata a quel testo indicato sinteticamente come procedura di “svalutazione fiscale” a carico dei paesi PIIGS.
Il lavoro si basa su diversi modelli matematici dell’economia come indicato nelle ipotesi e presenta alcuni elementi semplificativi che nel complesso rendono l’analisi totalmente estranea alla realtà attuale dell’economia europea.
I presupposti del calcolo del modello che ha portato ai risultati imposti ai politici dell’Europa si possono trovare nella relazione liberamente scaricabile dal sito della BCE che sintetizziamo qui di seguito:
Per consentire non banali decisioni di fissazione dei prezzi delle imprese, la produzione in entrambi i paesi è caratterizzata dalla concorrenza monopolistica del tipo Dixit-Stiglitz. La politica monetaria ha un ruolo di stabilizzazione significativo a causa della rigidità dei prezzi nominali, in linea con il nuovo metodo keynesiano (vedi Calvo (1983), Clarida et al. (1999), e Woodford (2003)). Inoltre, la politica monetaria è sovranazionale e segue una regola di retroazione di tipo Taylor, le variabili di targeting a livello di Unione. Al contrario, la politica fiscale è specifica per ogni paese, e la spesa pubblica e dei pagamenti di interessi sul debito pubblico in essere può essere finanziato attraverso una imposta di consumo lineare (e non discriminante) o una tassa lineare sul reddito da lavoro (con il lavoro unico fattore di produzione ). La politica fiscale segue regole di feedback che ancorano le economie ad un preciso livello di debito pubblico per paese, similmente a Leeper (1991), Schmitt-Grohe e Uribe (2007) e Leith e von Thadden (2008). Ogni paese è specializzato nella produzione di un beni commerciabili compositi che vengono consumati in entrambi i paesi. Le imprese fissano i prezzi alla produzione identici in entrambi i paesi e le ragioni di scambio (cioè il rapporto tra prezzo alla produzione tra i due beni commerciabili compositi) dipendono in condizioni di generali di equilibrio, tra l’altro, dalla struttura delle imposte e dalla spesa pubblica nei due paesi. I due paesi possono essere di diversa dimensione relativa, misurata in termini di quota di beni prodotti in un paese, tenendo costante il numero totale delle merci prodotte nell’Unione monetaria. Infine, si presuppone un totale mercato dei beni tra i due paesi, così che i movimenti netti di beni con l’estero non svolgono alcun ruolo.
In sintesi la concorrenza monopolistica di Dixit-Stiglitz (per chi vuole approfondire, ma lo sconsiglio perché si tratta sempre di modelli come quelli per le previsioni del tempo) ha le seguenti ipotesi:
1. I consumatori siano identici, ovvero abbiano la stessa funzione di utilità. Quindi, senza perdita di generalità, possiamo ipotizzare che tutta la popolazione sia costituita da un solo individuo.
2. Il tipo di funzione esprime il fatto che il consumatore preferisce la varietà alla quantità di un solo bene.
3. Il numero di marche potenziali è infinito.
4. Libera entrata di beni e servizi.
5. Sia la funzione di domanda diretta
Come si vede quanto sopra non corrisponde a nessuna economia presente o passata nel mondo.
Il nuovo metodo keynesiano (vedi Calvo (1983), Clarida et al. (1999), e Woodford (2003)) ha le seguenti caratteristiche:
l’agente rappresentativo ha vita infinita ed un’infinità di imprese con una funzione di produzione che dipende dal solo fattore lavoro. L’unica distinzione rispetto al modello neoclassico di ciclo reale (e.g.,Long e Plosser, 1983) è l’ipotesi di rigidità nominali nei prezzi.
Nella maggior parte dei casi, questa ipotesi prende la forma del modello di Calvo (1983), dove si assume che le imprese possano cambiare il prezzo solo se ricevono un segnale, il che accade con una certa probabilità, i.e., α. Ne consegue che con probabilità (1– α) le imprese non possono cambiare il proprio prezzo.
Anche questo è un modello che non ha riferimenti nella vita reale perché evidentemente pensato da chi non ha mai visto come si fissano i prezzi nelle imprese reali.
In sintesi le ipotesi sono le seguenti:
Una unione monetaria di due nazioni con differente politica fiscale. La politica monetaria è sopranazionale e segue le regole dell’unica banca centrale. Le due economie sono strutturalmente identiche, ma differiscono per le dimensioni.
Il mercato è soggetto a competizione monopolistica mentre il mercato del lavoro è perfettamente competitivo. Non sussistono differenze nei due paesi nei prezzi di produzione.
Si tratta, come si vede di una grossolana approssimazione della descrizione dell’unità monetaria all’europea che certamente non corrisponde neppure lontanamente alla realtà fisica.
E’ evidente che queste approssimazioni hanno lo scopo di utilizzare le formule dei modelli che vengono citati.
Non viene fatto nessuno sforzo per descrivere in modo originale, anche solo tra due nazioni prese a riferimento, una situazione reale e quindi si usano formule matematiche che portano a conclusioni che sono contraddette dalla logica perché anche da un solo errore si può dimostrare qualsiasi cosa.
Una approssimazione che porta certamente errori di calcolo riguarda l’uguaglianza dei costi di produzione tra stati e differenza sui prezzi solo per effetto della differenti politiche fiscali.
Non è un caso reale. Infatti a seconda delle regole e delle leggi locali possono aversi differenze sui prezzi alla produzione anche se, devo dire, non è questo il problema più grosso del modello.
Infatti non è assolutamente condivisibile quanto riportato al punto 2.3.1 che si basa su questi presupposti: cioè l’assunzione che il bilancio finanziario degli stati resti immutato in termini reali (quindi al netto della svalutazione fiscale) assicurando che il livello di debito resti inalterato con l’aumento della tassazione sui consumi ed un successivo ritocco alla tassazione sul lavoro.
E’ contraddetto dalla situazione pratica di applicazione del metodo e non tiene conto dall’analisi di Frank Ramsey in “A contribution to the theory of taxation”.
Infatti l’aumento della pressione fiscale sui prodotti crea una riduzione della produzione dei prodotti tassati, quindi riduce il gettito a causa della contrazione della produzione sia in via diretta (per il calo della produzione) sia in via indiretta (per la riduzione delle tasse sui lavoratori espulsi dal sistema produttivo a causa della minore produzione dei beni tassati).
L’ipotesi di lavoro è che prima si debba procedere all’aumento delle tasse sulla produzione e, successivamente per effetto dell’aumento del gettito, si possa provvedere a ridurre le tasse sul lavoro.
In presenza di un sistema del credito in grado di sostenere l’economia nel periodo di tempo intercorrente tra l’aumento delle tasse sui consumi e quelle sul lavoro si potrebbe pensare che, se l’economia fosse in espansione, il metodo potrebbe anche dare risultati. Ma in periodo di recessione e con il sistema bancario non in grado di proporsi al rischio aggiuntivo di un’espansione del credito la regola di F. Ramsey è di riduzione della produzione e quindi del gettito.
Pertanto i risultati previsti non sono raggiungibili.
Infatti l’aumento della tassazione diretta riduce (Frank Ramsey in “A contribution to the theory of taxation”) la produzione dei beni tassati. Da questo deriva una contrazione delle capacità produttive del paese, in particolare per i beni “elastici”, che solo in parte e molto più tardi potrebbero essere compensata da una riduzione delle tasse sul lavoro che, per altro si riduce in quantità, per effetto della riduzione della produzione. Quindi si assiste alla contrazione del gettito delle tasse sul lavoro per il licenziamento del personale eccedente quindi la possibilità di riduzione della tassazione sul lavoro, per ottenere un bilancio statale e il livello del debito inalterato, non è fisicamente possibile.
Questo mette in crisi tutta l’analisi economica successiva che non può più essere condotta con queste ipotesi.
Anche una successiva riduzione della tassazione sui redditi sarebbe insufficiente, ancorché massiccia, a compensare gli effetti dell’incremento delle tasse sui consumi. Infatti la propensione all’acquisto si riduce comunque con il crescere dei prezzi benché il modello dica esattamente il contrario e, comunque, l’economia dovrebbe trovare una propulsione a riprendersi che non si vede da dove possa venire con le banche impossibilitate a fare credito e con le agevolazioni statali e comunitarie in costante contrazione.
Inoltre non si capisce come si possa controllare adeguatamente l’evasione fiscale quando la pressione sui consumi dovesse farsi sentire con forza, considerando come l’evadere da tasse piccole sui consumi rappresenta un rischio che non conviene correre, mentre evadere tasse elevate potrebbe generare un favorevole rapporto costi/benefici a favore dell’evasore; inoltre si dovrebbe tenere conto che le tasse sui consumi, per la loro natura di essere disperse su una miriade enorme di prodotti, difficilmente possono essere controllate. In questi termini l’evasione prevede una maggiore probabilità di impunità.
Ci sembra errata la considerazione che il livello di tassazione del lavoro sia indipendente dal livello della tassazione sui consumi e viceversa. Ma qui siamo tornati a presentare un’altra grossolana semplificazione del modello. Infatti il prezzo alla produzione dipende dal costo del lavoro e questo dipende anche dal regime generale della tassazione sui consumi, almeno se non si è in un regime autoritario ed illiberale. Quindi gli effetti del modello dovrebbero prevedere un calcolo per successive approssimazioni e non limitarsi a sostenere che i prezzi di produzione sono uguali in tutti i paesi perché se cambia il regime di tassazione cambiano anche i prezzi di produzione e spesso non di poco. Dipende dalla capacità contrattuale dei lavoratori che hanno condizioni diversissime in uno stesso paese con aree protette e aree esposte alla concorrenza. Anche questa è una approssimazione del modello che incide, non poco, sui risultati.
Nel calcolo non viene messo (ad esempio) il tasso reale dell’IVA e l’aliquota della tassa diretta, ma i valori medi di questi rispettivamente sulle transazioni dichiarate e sui redditi medi da lavoro ignorando totalmente l’esistenza di beni “elastici” e beni “anelastici”.
Questi termini sono correlati tra loro per il fatto che (ad esempio) una riduzione della tassazione sui consumi determina un incremento dell’attività da lavoro (necessario per produrre e vendere più prodotti) e quindi un incremento del gettito da tasse sul lavoro.
E naturalmente viceversa come è accaduto con le manovre recenti nei paesi del sud Europa.
I risultati del calcolo, comunque mostrano come la politica fiscale del governo Monti (per non parlare delle politiche fiscali dei suoi predecessori improntate tutte ad aumentare la tassazione sia sui consumi sia sui redditi – in particolare da lavoro-) sia la causa del declino accelerato dell’economia italiana.
Infatti, avendo promosso, ad esempio, l’aumento dell’irpef degli enti locali in aggiunta all’aumento dell’IVA, risulta dal modello che non poteva non determinarsi un crollo della produzione industriale, aumento massiccio della disoccupazione e riduzione delle libertà dei cittadini in quanto soggetti a maggiore pressione in ambito lavorativo per la rarefazione dei posti di lavoro, benché il modello della BCE si basi proprio sulla flessibilità totale del lavoro e quindi su un controllo della libertà dei lavoratori. In particolare a questa situazione di precarietà si sono aggiunte leggi specifiche miranti a rendere più docili i lavoratori sotto la minaccia anche di licenziamento senza giusta causa in una economia in forte declino e quindi con poche opportunità di cambio di posto di lavoro.
Riportiamo le tabelle ed il grafico principale dello studio per mostrare come, in una situazione più simile al mondo delle idee di Platone che ad una realtà di società industriale complessa, si siano previsti i risultati che andremo a commentare.
Simbologia:
La tabella che mostra gli effetti di un aumento della tassazione sui consumi ed una corrispondente riduzione di quella sui redditi da lavoro nel lungo termine è a seguente:
Certamente il presupposto è la riduzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro.
Se si facessero i conti con un incremento di questa quota di tassazione i risultati sarebbero molto differenti e condurrebbero in linea di principio ad una contrazione della produzione ed a cascata un aumento del debito pubblico almeno in costanza della spesa.
Quindi se il governo conosceva questi calcoli sapeva anche che la strada intrapresa era quella della deindustrializzazione dell’Italia nelle attività in concorrenza con l’estero, una riduzione della spesa pubblica che rendesse impossibile una spesa sociale anche minima nei campi della sanità, della prevenzione, dell’assistenza. Quindi lo scopo ultimo era quello di incrementare le divisioni sociali incrementando le posizioni di vantaggio per quelle attività che non avevano concorrenza internazionale come appunto la sanità privata.
Riportiamo anche la tabella 6
Qui sono riportati gli effetti in funzione delle rapporto delle dimensioni economiche dei due paesi esaminati (n è il rapporto tra le due economie).
Probabilmente c’è un errore di calcolo visto che si prevede di ridurre il debito pubblico con il solo incremento della tassazione sui consumi.
E’ errato perché confligge con l’analisi di Ramsey sulla teoria della tassazione. Infatti ad un aumento della tassazione corrisponde una riduzione nella produzione dei prodotti “elastici” e quindi, in generale in un’economia riflessiva, una contrazione del gettito. Non si capisce come sia possibile che si riduca il debito pubblico (troppo modesto è l’effetto dell’incremento del debito estero) se non si è prevista una generale riduzione della spesa pubblica. Ma questo nello studio non è chiaramente espresso, anzi sembrerebbe escluso.
Mi sembra evidente che lo studio abbia grosse lacune nella stessa redazione del modello. SI riferisce al paragone di soli due stati, utilizza degli algoritmi apparentemente rigorosi, ma confligge con la stessa analisi matematica che viene utilizzata per fare i calcoli.
il problema non è nei modelli, ma nell’uso della matematica in condizioni non rigorose. Infatti se si analizza un sistema produttivo e di fanno dei semplici bilanci di flusso, anche con le ipotesi riduttive indicate dalla BCE, verrebbero fuori risultati, probabilmente approssimati, ma sicuramente di segno diverso da quelli ottenuti prendendo a prestito modelli altrui senza tenere conto che esistono delle condizioni nei sistemi economici che non possono essere espresse comunque dai modelli. In altri termini questo studio matematico non sembra essere stato controllato mediante metodi sintetici per vedere da quale parte devono andare i risultati, almeno non sono citati nella relazione.
Era una prassi che i professori di ingegneria obbligassero gli studenti a riflettere sui risultati ottenuti verificando sempre per altra via che non avessero commesso errori.
In economia, quando si va a toccare la vita di milioni di persone che possono trovarsi povere o indigenti per errori di calcolo andrebbe adottata una uguale prudenza dei calcoli degli ingegneri che solo in pochi casi potrebbero creare pericolo per milioni di persone.
Il problema non è tecnico, ma politico.
Possibile che nessuno di quanti hanno deciso di applicare il modello alla nostra economia si sia reso conto dei limiti di questo studio? Hanno preso tutto per buono anche se la stessa BCE lo considerava da approfondire. Infatti le critiche evidenti anche ai non addetti ai lavori prima citate non potevano sfuggire a dei tecnici economici.
E dopo che è maturato il disastro conseguente all’errata applicazione di questo metodo all’economia italiana perché non è stato fatto un processo politico a quanti avevano appoggiato o creato le condizioni perché questo disastro si verificasse?
Per chiarire il concetto faccio un esempio:
Supponiamo che un fisico ritenga di poter stabilire la quantità di pesci che si trovano in un determinato tratto di mare utilizzando la legge di Avogadro che, ovviamente non corrisponde in nulla al modello di studio.
Nel caso trovi, mediante i calcoli, una corrispondenza tra il numero possibile ed il numero calcolato di pesci è evidente che potrebbe trovare dei numeri che non hanno nessuna relazione con la realtà. Tuttavia se, mediante uno studio alternativo verificato anche praticamente, trovasse che la legge così costruita sia accettabile, nelle particolari condizioni dello studio, la sua attività scientifica sarebbe, benché in modo imprevisto, una buona ricerca scientifica.
Questi economisti prendono un modello, come in questo caso che non ha nessuna relazione con il mondo reale, usano delle restrizioni (necessarie per utilizzare certe formule di modelli econometrici) che non corrispondono alla realtà dei sistemi esaminati, quindi solo per caso potrebbero trovare delle leggi adeguate agli scopi. Ma quello che è da criticare scientificamente è il mancato controllo dei risultati mediante altri metodi alternativi atti a stabilire, anche di massima, se quanto hanno ottenuto ha un riscontro con la realtà. In questo caso, poi hanno dimenticato di valutare un effetto fondamentale come il credit crunch bancario e le conclusioni di un eccellente matematico come Frank Ramsey che li aveva avvertiti sull’esito della manovra come da loro impostata.
La critica non è se sia giusto o sbagliato modificare il sistema di tassazione, ma piuttosto il modo con cui questo è stato fatto basandosi solo su modelli matematici non coerenti con la situazione in esame.
Quindi non sono i due estensori i colpevoli, ma i politici che non hanno saputo fare i controlli e le verifiche accettando funzioni matematiche come se fossero verità rivelate mandando con quelle a ramengo l’economia della nazione.