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Una critica al Working paper della BCE n. 1097 di ottobre 2009

22 Giu

Si tratta di un lavoro di Anna Lipińska e Leopold von Tadden per conto della BCE denominato:  MONETARY AND FISCAL POLICY ASPECTS OF INDIRECT TAX CHANGES IN A MONETARY UNION.

L’attività del governo Monti è stata largamente ispirata a quel testo indicato sinteticamente come procedura di “svalutazione fiscale” a carico dei paesi PIIGS.

Il lavoro si basa su diversi modelli matematici dell’economia come indicato nelle ipotesi e presenta alcuni elementi semplificativi che nel complesso rendono l’analisi totalmente estranea alla realtà attuale dell’economia europea.

I presupposti del calcolo del modello che ha portato ai risultati imposti ai politici dell’Europa si possono trovare nella relazione liberamente scaricabile dal sito della BCE che sintetizziamo qui di seguito:

Per consentire non banali decisioni di fissazione dei prezzi delle imprese, la produzione in entrambi i paesi è caratterizzata dalla concorrenza monopolistica del tipo Dixit-Stiglitz. La politica monetaria ha un ruolo di stabilizzazione significativo a causa della rigidità dei prezzi nominali, in linea con il nuovo metodo keynesiano (vedi Calvo (1983), Clarida et al. (1999), e Woodford (2003)). Inoltre, la politica monetaria è sovranazionale e segue una regola di retroazione di tipo Taylor, le variabili di targeting a livello di Unione. Al contrario, la politica fiscale è specifica per ogni paese, e la spesa pubblica e dei pagamenti di interessi sul debito pubblico in essere può essere finanziato attraverso una imposta di consumo lineare (e non discriminante) o una tassa lineare sul reddito da lavoro (con il lavoro unico fattore di produzione ). La politica  fiscale segue regole di feedback che ancorano le economie ad un preciso livello di debito pubblico per paese, similmente a Leeper (1991), Schmitt-Grohe e Uribe (2007) e Leith e von Thadden (2008). Ogni paese è specializzato nella produzione di un beni commerciabili compositi che vengono consumati in entrambi i paesi. Le imprese fissano i prezzi alla produzione identici in entrambi i paesi e le ragioni di scambio (cioè il rapporto tra prezzo alla produzione tra i due beni commerciabili compositi) dipendono in condizioni di generali di equilibrio, tra l’altro, dalla struttura delle imposte e dalla spesa pubblica nei due paesi. I due paesi possono essere di diversa dimensione relativa, misurata in termini di quota di beni prodotti in un paese, tenendo costante il numero totale delle merci prodotte nell’Unione monetaria. Infine, si presuppone un totale mercato dei beni tra i due paesi, così che i movimenti netti di beni con l’estero non svolgono alcun ruolo.

In sintesi la concorrenza monopolistica di Dixit-Stiglitz (per chi vuole approfondire, ma lo sconsiglio perché si tratta sempre di modelli come quelli per le previsioni del tempo) ha le seguenti ipotesi:

1. I consumatori siano identici, ovvero abbiano la stessa funzione di utilità. Quindi, senza perdita di generalità, possiamo ipotizzare che tutta la popolazione sia costituita da un solo individuo.

2. Il tipo di funzione esprime il fatto che il consumatore preferisce la varietà alla quantità di un solo bene.

3. Il numero di marche potenziali è infinito.

4. Libera entrata di beni e servizi.

5. Sia la funzione di domanda diretta

Come si vede quanto sopra non corrisponde a nessuna economia presente o passata nel mondo.

Il nuovo metodo keynesiano (vedi Calvo (1983), Clarida et al. (1999), e Woodford (2003)) ha le seguenti caratteristiche:

l’agente rappresentativo ha vita infinita ed un’infinità di imprese con una funzione di produzione che dipende dal solo fattore lavoro. L’unica distinzione rispetto al modello neoclassico di ciclo reale (e.g.,Long e Plosser, 1983) è l’ipotesi di rigidità nominali nei prezzi.

Nella maggior parte dei casi, questa ipotesi prende la forma del modello di Calvo (1983), dove si assume che le imprese possano cambiare il prezzo solo se ricevono un segnale, il che accade con una certa probabilità, i.e., α. Ne consegue che con probabilità (1– α) le imprese non possono cambiare il proprio prezzo.

Anche questo è un modello che non ha riferimenti nella vita reale perché evidentemente pensato da chi non ha mai visto come si fissano i prezzi nelle imprese reali.

In sintesi le ipotesi sono le seguenti:

Una unione monetaria di due nazioni con differente politica fiscale. La politica monetaria è sopranazionale e segue le regole dell’unica banca centrale. Le due economie sono strutturalmente identiche, ma differiscono per le dimensioni.

Il mercato è soggetto a competizione monopolistica mentre il mercato del lavoro è  perfettamente competitivo. Non sussistono differenze nei due paesi nei prezzi di produzione.

Si tratta, come si vede di una grossolana approssimazione della descrizione dell’unità monetaria all’europea che certamente non corrisponde neppure lontanamente alla realtà fisica.

E’ evidente che queste approssimazioni hanno lo scopo di utilizzare le formule dei modelli che vengono citati.

Non viene fatto nessuno sforzo per descrivere in modo originale, anche solo tra due nazioni prese a riferimento, una situazione reale e quindi si usano formule matematiche che portano a conclusioni che sono contraddette dalla logica perché anche da un solo errore si può dimostrare qualsiasi cosa.

Una approssimazione che porta certamente errori di calcolo riguarda l’uguaglianza dei costi di produzione tra stati e differenza sui prezzi solo per effetto della differenti politiche fiscali.

Non è un caso reale. Infatti a seconda delle regole e delle leggi locali possono aversi differenze sui prezzi alla produzione anche se, devo dire, non è questo il problema più grosso del modello.

Infatti non è assolutamente condivisibile quanto riportato al punto 2.3.1 che si basa su questi presupposti: cioè l’assunzione che il bilancio finanziario degli stati resti immutato in termini reali (quindi al netto della svalutazione fiscale) assicurando che il livello di debito resti inalterato con l’aumento della tassazione sui consumi ed un successivo ritocco alla tassazione sul lavoro.

E’ contraddetto dalla situazione pratica di applicazione del metodo e non tiene conto dall’analisi di Frank Ramsey in “A contribution to the theory of taxation”.

Infatti l’aumento della pressione fiscale sui prodotti crea una riduzione della produzione dei prodotti tassati, quindi riduce il gettito a causa della contrazione della produzione sia in via diretta (per il calo della produzione) sia in via indiretta (per la riduzione delle tasse sui lavoratori espulsi dal sistema produttivo a causa della minore produzione dei beni tassati).

L’ipotesi di lavoro è che prima si debba procedere all’aumento delle tasse sulla produzione e, successivamente per effetto dell’aumento del gettito, si possa  provvedere a ridurre le tasse sul lavoro.

In presenza di un sistema del credito in grado di sostenere l’economia nel periodo di tempo intercorrente tra l’aumento delle tasse sui consumi e quelle sul lavoro si potrebbe pensare che, se l’economia fosse in espansione, il metodo potrebbe anche dare risultati. Ma in periodo di recessione e con il sistema bancario non in grado di proporsi al rischio aggiuntivo di un’espansione del credito la regola di F. Ramsey è di riduzione della produzione e quindi del gettito.

Pertanto i risultati previsti non sono raggiungibili.

Infatti l’aumento della tassazione diretta riduce (Frank Ramsey in “A contribution to the theory of taxation”) la produzione dei beni tassati. Da questo deriva una contrazione delle capacità produttive del paese, in particolare per i beni “elastici”, che solo in parte e molto più tardi potrebbero essere compensata da una riduzione delle tasse sul lavoro che, per altro si riduce in quantità, per effetto della riduzione della produzione. Quindi si assiste alla contrazione del gettito delle tasse sul lavoro per il licenziamento del personale eccedente quindi la possibilità di riduzione della tassazione sul lavoro, per ottenere un bilancio statale e il livello del debito inalterato, non è fisicamente possibile.

Questo mette in crisi tutta l’analisi economica successiva che non può più essere condotta con queste ipotesi.

Anche una successiva riduzione della tassazione sui redditi sarebbe insufficiente, ancorché massiccia, a compensare gli effetti dell’incremento delle tasse sui consumi. Infatti la propensione all’acquisto si riduce comunque con il crescere dei prezzi benché il modello dica esattamente il contrario e, comunque, l’economia dovrebbe trovare una propulsione a riprendersi che non si vede da dove possa venire con le banche impossibilitate a fare credito e con le agevolazioni statali e comunitarie in costante contrazione.

Inoltre non si capisce come si possa controllare adeguatamente l’evasione fiscale quando la pressione sui consumi dovesse farsi sentire con forza, considerando come l’evadere da tasse piccole sui consumi rappresenta un rischio che non conviene correre, mentre evadere tasse elevate potrebbe generare un favorevole rapporto costi/benefici a favore dell’evasore; inoltre si dovrebbe tenere conto che le tasse sui consumi, per la loro natura di essere disperse su una miriade enorme di prodotti, difficilmente possono essere controllate. In questi termini l’evasione prevede una maggiore probabilità di impunità.

Ci sembra errata la considerazione che il livello di tassazione del lavoro sia indipendente dal livello della tassazione sui consumi e viceversa. Ma qui siamo tornati a presentare un’altra grossolana semplificazione del modello. Infatti il prezzo alla produzione dipende dal costo del lavoro e questo dipende anche dal regime generale della tassazione sui consumi, almeno se non si è in un regime autoritario ed illiberale. Quindi gli effetti del modello dovrebbero prevedere un calcolo per successive approssimazioni e non limitarsi a sostenere che i prezzi di produzione sono uguali in tutti i paesi perché se cambia il regime di tassazione cambiano anche i prezzi di produzione e spesso non di poco. Dipende dalla capacità contrattuale dei lavoratori che hanno condizioni diversissime in uno stesso paese con aree protette e aree esposte alla concorrenza. Anche questa è una approssimazione del modello che incide, non poco, sui risultati.

Nel calcolo non viene messo (ad esempio) il tasso reale dell’IVA e l’aliquota della tassa diretta, ma i valori medi di questi rispettivamente sulle transazioni dichiarate e sui redditi medi da lavoro ignorando totalmente l’esistenza di beni “elastici” e beni “anelastici”.

Questi termini sono correlati tra loro per il fatto che (ad esempio) una riduzione della tassazione sui consumi determina un incremento dell’attività da lavoro (necessario per produrre e vendere più prodotti) e quindi un incremento del gettito da tasse sul lavoro.

E naturalmente viceversa come è accaduto con le manovre recenti nei paesi del sud Europa.

I risultati del calcolo, comunque mostrano come la politica fiscale del governo Monti (per non parlare delle politiche fiscali dei suoi predecessori improntate tutte ad aumentare la tassazione sia sui consumi sia sui redditi – in particolare da lavoro-) sia la causa del declino accelerato dell’economia italiana.

Infatti, avendo promosso, ad esempio, l’aumento dell’irpef degli enti locali in aggiunta all’aumento dell’IVA, risulta dal modello che non poteva non determinarsi un crollo della produzione industriale, aumento massiccio della disoccupazione e riduzione delle libertà dei cittadini in quanto soggetti a maggiore pressione in ambito lavorativo per la rarefazione dei posti di lavoro, benché il modello della BCE si basi proprio sulla flessibilità totale del lavoro e quindi su un controllo della libertà dei lavoratori. In particolare a questa situazione di precarietà si sono aggiunte leggi specifiche miranti a rendere più docili i lavoratori sotto la minaccia anche di licenziamento senza giusta causa in una economia in forte declino e quindi con poche opportunità di cambio di posto di lavoro.

Riportiamo le tabelle ed il grafico principale dello studio per mostrare come, in una situazione più simile al mondo delle idee di Platone che ad una realtà di società industriale  complessa,  si siano previsti i risultati che andremo a commentare.

Simbologia:

Schermata 2013-06-06 alle 20.21.34

La tabella che mostra gli effetti di un aumento della tassazione sui consumi ed una corrispondente riduzione di quella sui redditi da lavoro nel lungo termine è a seguente:

Schermata 2013-06-06 alle 15.51.09

Certamente il presupposto è la riduzione della pressione fiscale sui redditi da lavoro.

Se si facessero i conti con un incremento di questa quota di tassazione i risultati sarebbero molto differenti e condurrebbero in linea di principio ad una contrazione della produzione ed a cascata un aumento del debito pubblico almeno in costanza della spesa.

Quindi se il governo conosceva questi calcoli sapeva anche che la strada intrapresa era quella della deindustrializzazione dell’Italia nelle attività in concorrenza con l’estero, una riduzione della spesa pubblica che rendesse impossibile una spesa sociale anche minima nei campi della sanità, della prevenzione, dell’assistenza. Quindi lo scopo ultimo era quello di incrementare le divisioni sociali incrementando le posizioni di vantaggio per quelle attività che non avevano concorrenza internazionale come appunto la sanità privata.

Riportiamo anche la tabella 6

Schermata 2013-06-06 alle 15.51.45

Qui sono riportati gli effetti in funzione delle rapporto delle dimensioni economiche dei due paesi esaminati (n è il rapporto tra le due economie).

Probabilmente c’è un errore di calcolo visto che si prevede di ridurre il debito pubblico con il solo incremento della tassazione sui consumi.

E’ errato perché confligge con l’analisi di Ramsey sulla teoria della tassazione. Infatti ad un aumento della tassazione corrisponde una riduzione nella produzione dei prodotti “elastici” e quindi, in generale in un’economia riflessiva, una contrazione del gettito. Non si capisce come sia possibile che si riduca il debito pubblico (troppo modesto è l’effetto dell’incremento del debito estero) se non si è prevista una generale riduzione della spesa pubblica. Ma questo nello studio non è chiaramente espresso, anzi sembrerebbe escluso.

Mi sembra evidente che lo studio abbia grosse lacune nella stessa redazione del modello. SI riferisce al paragone di soli due stati, utilizza degli algoritmi apparentemente rigorosi, ma confligge con la stessa analisi matematica che viene utilizzata per fare i calcoli.

il problema non è nei modelli, ma nell’uso della matematica in condizioni non rigorose. Infatti se si analizza un sistema produttivo e di fanno dei semplici bilanci di flusso, anche con le ipotesi riduttive indicate dalla BCE, verrebbero fuori risultati, probabilmente approssimati, ma sicuramente di segno diverso da quelli ottenuti prendendo a prestito modelli altrui senza tenere conto che esistono delle condizioni nei sistemi economici che non possono essere espresse comunque dai modelli. In altri termini questo studio matematico non sembra essere stato controllato mediante metodi sintetici per vedere da quale parte devono andare i risultati, almeno non sono citati nella relazione.

Era una prassi che i professori di ingegneria obbligassero gli studenti a riflettere sui risultati ottenuti verificando sempre per altra via che non avessero commesso errori.

In economia, quando si va a toccare la vita di milioni di persone che possono trovarsi povere o indigenti per errori di calcolo andrebbe adottata una uguale prudenza dei calcoli degli ingegneri che solo in pochi casi potrebbero creare pericolo per milioni di persone.

Il problema non è tecnico, ma politico.

Possibile che nessuno di quanti hanno deciso di applicare il modello alla nostra economia si sia reso conto dei limiti di questo studio? Hanno preso tutto per buono anche se la stessa BCE lo considerava da approfondire. Infatti le critiche evidenti anche ai non addetti ai lavori prima citate non potevano sfuggire a dei tecnici economici.

E dopo che è maturato il disastro conseguente all’errata applicazione di questo metodo all’economia italiana perché non è stato fatto un processo politico a quanti avevano appoggiato o creato le condizioni perché questo disastro si verificasse?

Per chiarire il concetto faccio un esempio:

Supponiamo che un fisico ritenga di poter stabilire la quantità di pesci che si trovano in un determinato tratto di mare utilizzando la legge di Avogadro che, ovviamente non corrisponde in nulla al modello di studio.

Nel caso trovi, mediante i calcoli, una corrispondenza tra il numero possibile ed il numero calcolato di pesci è evidente che potrebbe trovare dei numeri che non hanno nessuna relazione con la realtà. Tuttavia se, mediante uno studio alternativo verificato anche praticamente, trovasse che la legge così costruita sia accettabile, nelle particolari condizioni dello studio, la sua attività scientifica sarebbe, benché in modo imprevisto, una buona ricerca scientifica.

Questi economisti prendono un modello, come in questo caso che non ha nessuna relazione con il mondo reale, usano delle restrizioni (necessarie per utilizzare certe formule di modelli econometrici) che non corrispondono alla realtà dei sistemi esaminati, quindi solo per caso potrebbero trovare delle leggi adeguate agli scopi. Ma quello che è da criticare scientificamente è il mancato controllo dei risultati mediante altri metodi alternativi atti a stabilire, anche di massima, se quanto hanno ottenuto ha un riscontro con la realtà. In questo caso, poi hanno dimenticato di valutare un effetto fondamentale come il credit crunch bancario e le conclusioni di un eccellente matematico come Frank Ramsey che li aveva avvertiti sull’esito della manovra come da loro impostata.

La critica non è se sia giusto o sbagliato modificare il sistema di tassazione, ma piuttosto il modo con cui questo è stato fatto basandosi solo su modelli matematici non coerenti con la situazione in esame.

Quindi non sono i due estensori i colpevoli, ma i politici che non hanno saputo fare i controlli e le verifiche accettando funzioni matematiche come se fossero verità rivelate mandando con quelle a ramengo l’economia della nazione.

La critica a sinistra delle operazioni finanziarie della FED e della BCE

14 Ott

Propongo di seguito la critica comunista delle operazioni delle banche centrali che stanno portando all’impoverimento di alcune classi sociali.

Esiste anche una critica di destra legata strettamente alla definizione di moneta e nell’ambito delle teorie liberiste secondo cui queste operazioni monetarie in corso da parte di FED e BCE violano con sconcertante continuità i presupposti per una pari opportunità nei mercati mentre si sostiene che sono di sostegno all’economia. Infatti le truffe alla Ponzi e le catene di S. Antonio non dovrebbero far parte delle teorie economiche del liberismo classico, ma in questo dichiaro tutta la mia ignoranza non avendo letto se non mediato da terzi Malthus, Bentham, Mill, Ricardo.

Questo di seguito è l’articolo di Nicola Capelluto pubblicato sulla rivista Lotta Comunista nel numero 505 di Settembre 2012 a pagina 13.

settembre 2012                                  lotta comunista                                numero 505 – pagina 13

Le alchimie “illimitate” di FED e BCE 

La BCE e la FED, nella prima metà di settembre, hanno varcato un’altra soglia nel corpo a corpo con la crisi. Entrambe hanno annunciato che attueranno interventi di carattere illimitato sui mercati dei titoli. Il potere esclusivo delle Banche centrali di creare moneta potenzialmente illimitata è postulato nei manuali di economia e invocato dagli economisti neokeynesiani, ma è la prima volta in questa crisi che i maggiori poteri monetari adottano il concetto dell’intervento illimitato. Aveva iniziato, un anno fa, la Banca nazionale svizzera. Per fermare la rivalutazione del franco contro l’euro, si era impegnata ad acquistare «quantità illimitate» di valuta estera, cioè a stampare e vendere moneta nazionale senza limiti.

Osserva Jens Weidmann, presidente di Bundesbank, chiosando i versi del Faust di un Goethe lungimirante che il potere della Banca centrale di creare moneta dal nulla appare «sorprendente, strano, forse mistico, favoloso o terrificante» ed è alla base di quelle tesi che indica nei moderni creatori di cartamoneta gli eredi degli alchimisti che, manipolando ti piombo, pensavano di ricavarne oro. Weidrnann è in polemica con la BCE, che giudica troppo esposta oggi alle tentazioni dell’illusione monetaria. Ma perde di vista il grande alchimista della globalizzazione imperialistica: il capitale finanziario che si automoltiplica, evilando le strade del processo produttivo occupate dalle potenze emergenti, e genera l’economia di carta, l’economia del debito, l’economia delle bolle.

I cannoni di settembre delle Banche centrali 

Gli obiettivi e i mezzi d’azione indicati dalla BCE e dalla FED sono differenti. Francoforte, che finora aveva acquistato 210 miliardi di curo di titoli di Stato con esiti effimeri, si riserva di acquistarne, «senza limiti ex ante», dai soli paesi che chiederanno assistenza all’ESM, il fondo “salvatati” dell’Unione, e si sottoporranno a strette condizioni. Lo scopo degli interventi della BCE è di abbattere gli «inaccettabili» premi di rischio pagati da alcuni debiti sovrani europei, prodotti dai «timoridi una reversibilità dell’euro». L’obiettivo politico è chiaro: garantire che «l’euro è irreversibile».  Gli interventi saranno «steriIizzati», ossia la BCE venderà sui mercati una quantità di altri titoli pari a quanti ne acquista, Si attende che sia la Spagna il primo terreno di sperimentazione dell’ESM e dell ‘iniziativa della BCE.

Condizionalità e sterilizzazione non rientrano tra i mezzi d’intervento della Federal Reserve. Dall’inizio della crisi la FED ha acquistato circa 2.600 miliardi di dollari di obbligazioni (per due terzi titoli del Tesoro e per un terzo titoli ipotecari), in blocchi quantitativi e temporali predefiniti. Adesso, a poche settimane dal voto presidenziale, ha deciso di riprendere gli acquisti di titoli ipotecari per 40 miliardi di dollari ogni mese, ma senza un termine temporale – fino a che «il mercato del lavoro non migliorerà sostanzialmente» – e di adottare una politica monetaria «altamente accomodante» per un «tempo considerevole» anche «dopo che la ripresa sarà rafforzata». La FED vuole mantenere bassi i tassi di prestito e dare una spinta al mercato immobiliare e agli investimenti.

Le Banche centrali si attrezzano per due rischi: la prosecuzione della decelerazione generale del ciclo di cui risente da tre trimestri anche la produzione industriale cinese; lo scivolamento, dopo le elezioni presidenziali, nel “precipizio fiscale” (fiscal cliff) statunitense. Senza una soluzione, si calcola che la fine dei tax cut e delle esenzioni temporanee e i tagli automatici di spesa pubblica sottrarranno nel 2013 all’economia americana quasi quattro punti di PIL. L’azione della FED, a seconda del compromesso fiscale, sarà un paracadute o un’arma di guerra monetaria.

Sorveglianza bancaria alla BCE 

Accanto all’iniziativa della BCE, contrastata da Bundesbank ma sostenuta da Angela Merkel e Wolfgang Schäuble, due eventi rimarcano l’accelerazione del processo europeo: il via libera della Corte costituzionale tedesca all’ESM e la proposta della Commissione europea di un «meccanismo di vigilanza unica». La linea della BCE va inquadrata all’interno della linea generale abbozzata in giugno dai quattro presidenti europei (Herman Van Rompuy, Mario Draghi, José Manuel Barroso, Jean-Claude Juncker), Essa prevede un avanzamento generale, sebbene con tempi diversificati, dell’integrazione europea, in quattro blocchi: l’unione fiscale, l’unione bancaria, l’unione economica e l’unione politica. Malgrado attriti, cicli elettorali nazionali, tensioni regionali e differenziazioni su tempi, modi e dosaggi, la linea generale dell’integrazione è tracciata.

In questo quadro di accresciuta uniformità di regole e disciplina e di affermazione delle istituzioni federali e comunitarie, si colloca il motore politico della BCE, I tratti di allentamento della linea monetaria di Francoforte – l’acquisto di titoli, la rinuncia allo status di creditore privilegiato, l’ampiezza dei collaterali accettati – sono strettamente connessi e condizionati all’accelerazione dell’intero convoglio continentale, Il processo è complesso e richiede una doppia conversione simultanea: l’adozione generalizzata della cultura della stabilità nelle politiche nazionali e, nello stesso tempo, il salto verso un’Ordnungspolitik europea, con istituzioni europee e cessioni di sovranità nazionale.

La proposta di Bruxelles per la “vigilanza unica” assegna alla BCE la «responsabilità ultima» della sorveglianza su tutte le banche dell’eurozona, ma il meccanismo resta aperto all’adesione degli Stati europei fuori dall’euro. Il trasferimento della vigilanza sarà graduato in tre tappe nell’arco del 2013, partendo dalle banche che beneficiano di assistenza pubblica. La BCE avrà la competenza «esclusiva» in materia di stabilità finanziaria, mentre alle Banche centrali nazionali resteranno compiti secondari. La struttura della sorveglianza sarà interna alla BCE ma nettamente separata da quella politica monetaria con un proprio organo decisionale composto dai rappresentanti di tutte le vigilanze nazionali ma diretto da un presidente e un vicepresidente nominati dalla BCE, la quale risponderà della vigilanza bancaria al parlamento europeo . La sorveglianza sarà la spina dorsale di una «unione bancaria integrata» che dovrà avere un quadro unico di requisiti patrimoniali, di garanzie sui depositi bancari e di risoluzione delle crisi bancarie e dovrà evolvere all’interno del duplice processo di unione bancaria e di unione fiscale.

Trasformazioni di sovranità 

Il carattere gemellare dei due processi è ribadito, per fugare i sospetti di Bundesbank che l’unione bancaria possa essere un sotterfugio per ottenere una condivisione di debiti nazionali senza trasferimenti di sovranità. La preferenza tedesca a far avanzare prima l’unione fiscale può essere uno dei motivi per cui il ministro delle Finanze Schäuble cerca di raffreddare la tendenza francese ad accelerare l’unione bancaria e consiglia a Madrid di pazientare prima di chiedere il soccorso dell’ESM e della BCE. Schäuble chiede anche che le prime banche ad entrare sotto la sorveglianza BCE siano quelle di statura sistemica e non quelle sotto assistenza, probabilmente perché teme un assalto frettoloso alle risorse del fondo salva-Stati.

La cessione alla BCE della sorveglianza bancaria, proposta da Bruxelles, contiene aspetti tanto di rottura quanto di trasformazione della sovranità. Il nostro concetto di pluralità di sovrastrutture dell’imperialismo europeo ha la flessibilità sufficiente per contenere entrambe le dinamiche. Si trasforma la sovranità detenuta nella sorveglianza bancaria da 14 delle

17 Banche centrali nazionali dell’eurosistema, il cui carattere “nazionale” è residuale rispetto alla loro appartenenza al corpo federale del potere monetario. Nella centralizzazione a Francoforte dei principali compiti di supervisione, quel potere residuale diventa effettivo, portandosi ad una stazza paragonabile a quella dei grandi gruppi bancari che operano su scala continentale e internazionale e a quella dei regolatori e sorveglianti d’oltre-Atlantico.

“Nuova dottrina” del potere monetario 

Solo la crisi poteva imporre questa centralizzazione. Nel ciclo trionfante della globalizzazione finanziaria, la regolazione e i controlli sui grandi gruppi bancari si erano attenuati fino ad assumere le sembianze dell’accordo di Basilea 2, che aveva concesso ampi spazi all’autoregolazione dei colossi finanziari. La creazione di una sorveglianza federata in Europa era allora impensabile e, in America dove c’era, attizzava la deregulation. Nello stesso tempo, nel conteso della globalizzazione, le vigilanze nazionali ebbero un ruolo proporzionato al peso dei loro sistemi bancari, svolgendo un ruolo attivo nei processi di ristrutturazione e di selezione dei campioni nazionali. La Banca d’Italia del governatore Antonio Fazio, membro paritario del consiglio direttivo della BCE ed esecutore delle sue delibere, ha usato assertivamente la discrezionalità del potere monetario nel campo della regolazione e sorveglianza al fine di proteggere o promuovere determinati gruppi nazionali.

Nella crisi, il ruolo delle Banche centrali nazionali è declinato, parallelamente all’ascesa impetuosa del ruolo di Francoforte. La crisi ha posto all’ordine del giorno anche il completamento del potere monetario federale. La “nuova dottrina” annuncia che la stabilità dei prezzi e la stabilità finanziaria non sono separabili, che le Banche centrali non possono svolgere il loro ruolo primario senza la conoscenza e la capacità d’intervento nel sistema delle relazioni finanziarie e sui singoli complessi finanziari.

Rotture di sovranità 

Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra, ha osservato, a commento della caduta di alcuni dei dell’Olimpo finanziario in America e in Europa, che «le banche vivono internazionali ma muoiono nazionali». Giganti emancipati da sudditanze nazionali sono stati ricondotti in patria dalla tempesta finanziaria, rivendicando la salvezza ai Tesori nazionali o, nel caso delle banche d’investimento USA sopravvissute, rifugiandosi sotto l’ala protettiva della FED. La crisi ha messo allo scoperto la sovranità passiva degli Stati nei confronti del capitale finanziario. Con l’avio della sorveglianza federale e con l’unione bancaria questo tipo di sovranità verrebbe spezzata e le banche sarebbero sottratte sostanzialmente al campo dell’azione legislativa dei parlamenti nazionali.

Nei paesi più colpiti della periferia, in Grecia e in Irlanda, il panico del 2010 aveva rivelato lo svuotamento della sovranità dei Tesori. La BCE ha imposto a questi paesi, con l’azione convergente del Consiglio europeo e dell’eurogruppo, le condizioni del salvataggio dei loro sistemi bancari. In Irlanda, all’inizio di settembre, il quotidiano “The Irish Times” ha minacciato di pubblicare le lettere con cui Jean-Claude Trichet impose a Dublino gli imperativi dell’Unione, agitando lo spauracchio dell’interruzione dei finanziamenti  alle banche irlandesi. Sua controparte era il moribondo ministro delle Finanze, Brian Lenihan, simbolo tragico dell’esangue sovranità degli Stati sui propri sistemi bancari. Se, come afferma l’assioma di Carl Schmitt, «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», in questi paesi la rottura della sovranità ha preceduto di due anni la proposta di Bruxelles. La generalizzazione normativa contenuta nella proposta europea ha dovuto aspettare i brividi dell’estensione della crisi bancaria in Italia e Spagna, a partire dalla seconda metà del 2011.

I vent’anni della nuova spartizione 

Le cessioni di sovranità non spezzano tuttavia i fasci di relazioni economiche e politiche storicamente acquisite dalle banche nei paesi d’origine, né azzerano necessariamente l’inclinazione a tenere quel debito sovrano nel proprio bilancio. L’unione bancaria riproduce semmai le condizioni per un rilancio del mercato europeo dei debiti nazionali, il cui traguardo sarebbe un unico debito pubblico europeo, al termine della costruzione dell’unione fiscale.

La recente storia europea è una successione di rotture e cessioni di sovranità. Si sono intrecciati movimenti centrifughi – rottura dell’URSS, della Cecoslovacchia, della Jugoslavia – e movimenti centripeti: riunificazione tedesca, unione monetaria europea, processi di integrazione fiscale e finanziaria. Lo sbriciolamento dell’impero russo ha messo fine alla vera spartizione di Yalta e ha riaperto la ricomposizione imperialistica del vecchio continente. Nella crisi delle relazioni globali, il processo di formazione dell’imperialismo europeo si accelera con nuove cessioni di sovranità.

NICOLA CAPELLUTO

Un interessante punto di vista sul sistema monetario

21 Giu

William Jennings Bryan, another loquacious Populist leader, gave such a stirring speech at the Democratic convention that he won the Democratic nomination for President in 1896. Outgoing President Grover Cleveland was also a Democrat, but he was an agent of J.P. Morgan and the Wall Street banking interests. Cleveland favored money that was issued by the banks, and he backed the bankers’ gold standard. Bryan was opposed to both. He argued in his winning nomination speech:

We say in our plataform that we believe that the right to coin money and issue money is a function of government ….. Those who are opposed to this proposition tell us that issue of paper money is a function of the bank and that the government ought to go out of the banking business. I stand with Jefferson … and tell them, as he did, that the issue of money is a function of the government ant that the banks should go out the governing business …. When we have restored the money of the Costitution, all other necessary reforms will be possible, and …. until that is done there is no reform that can be accomplished.

He concluded with these famous lines:

You shall not press down upon the brow of labor this crown of thorns, you shall non crucify mankind upon a cross of gold.

Dal Libro “Web of Debt” (Paperback)  di Hellen Hodgson Brown

(le ultime due righe sembrano scritte ieri per la situazione del lavoro in Italia)

Un interessante punto di vista sul sistema monetario.

Occorre osservare che quanti sono per la produzione di moneta da parte delle banche sostengono che queste sarebbero in grado, anche attraverso l’azione della banca centrale, di controllare la massa monetaria ed evitare l’inflazione.

Quanti sono per la produzione di moneta da parte dello stato non tengono conto dell’effetto leva sull’economia che il prestito bancario (serio e consapevole) può dare.

Inoltre esiste da tempo immemorabile un problema di coerenza della spesa pubblica, in relazione ai risultati che ci si attende di miglioramento delle condizioni economiche di chi lavora e produce, in funzione di fattori estranei all’economia. In passato poteva essere un problema l’età del re che emetteva moneta o la sua paura di perdere il potere. Oggi ci sono anche connessioni ed interessi spesso ignoti ai cittadini che determinano scelte non in linea con una buona amministrazione.

Tra l’altro lo stato non può destinare risorse derivanti dal debito a qualsiasi spesa, né può utilizzare le tasse per qualsiasi spesa intenda fare. Esistono dei precisi limiti e condizioni che somigliano molto alla buona amministrazione di un’impresa o di una famiglia. Queste condizioni sono state previste nelle regole del bilancio della stato, ma non sono state mai rispettate. Infatti negli anni ’80 si stampavano bot per coprire spese correnti o per pagare dipendenti pubblici eccedentari anche se le regole del Tesoro e del Bilancio lo proibivano.

In questo quadro è maturata la convinzione della scuola di Bologna e di Guido Carli che togliendo il potere economico ai politici si sarebbe avuta una crescita economica migliore e più stabile affidando al sistema bancario l’intera economia del nostro paese. In Europa questa concezione è stata la base del contratto di Maastricht.

Non si è tenuto conto del fatto che, senza una precisa regolamentazione di come si sarebbe dovuta produrre la moneta da parte delle istituzioni finanziarie e la facilità di creare moneta attraverso finte transazioni, si è creata una crescita monetaria enorme e di conseguenza un intervento delle banche centrali per contenere il circolante. Quindi il sistema finanziario ha incrementato la massa monetaria totale, mentre veniva ridotto il circolante attraverso il ritiro della liquidità necessaria per le famiglie e le imprese al fine di mantenere il valore della moneta malgrado l’enorme massa creata. Inoltre il risparmio di base, quello per intendersi dei buoni postali e dei bot, veniva ostacolato dal fatto che la carenza di circolante rendeva poco appetibili gli strumenti statali di debito in quanto non considerati più sicuri poiché gli stati dovevano reperire sempre nuove risorse anche per salvare le banche dal fallimento dovuto all’accumulo di moneta senza sottostante reale valore.

Infatti il valore della moneta dipende dalla quantità circolante in quanto serve come mezzo per gli scambi. Se le banche hanno creato moneta in assenza di reali scambi (come nelle finte cartolarizzazioni o le polpette ripiene di mistero dei fondi spacciati a clienti e ad altre istituzioni finanziarie) questi valori non esistono se non sulla carta e se dovessero essere liquidati si rivelerebbero delle perdite. Questi valori sono ora iscritti nei bilanci delle banche come valori liquidabili, ma corrispondono a perdite superiori al valore del loro patrimonio.

Quindi le banche sono fallite e gli stati e le banche centrali le stanno sorreggendo attraverso i prelievi eccezionali sul sistema produttivo e le famiglie.

Naturalmente se le banche non ci sono più occorre prenderne atto ed orientare gli investitori del sistema produttivo a trovare, per i propri progetti di innovazione e di credito ordinario, da altre fonti  il sostegno per generare l’effetto leva.

Quando si sarà accertato che il sistema bancario tradizionale non serve più perché è solo un danno all’economia non esisterà più la possibilità di salvarlo sostenendo che sono entità troppo grandi per fallire.

Quindi il problema è politico e non finanziario come comunemente si dice.

Manca da parte del sistema politico la volontà di riorientare alla crescita l’economia prescindendo da quanto possa fare il sistema finanziario che è morto, e di questo occorre convincersi, per suicidio da indigestione di moneta.

Manca anche la capacità dei politici di fare progetti che possono sviluppare l’economia e creare le condizioni per uno sviluppo stabile.

Ma altrettanto colpevole è il sistema produttivo, incapace di creare nuove occasioni di sviluppo e ancorato a modelli economici non più attuali. Spesso i capitalisti non sono in grado di capire come i lavoratori siano i loro migliori alleati per avere aumenti di produzione e di utili. Anzi, si sforzano di rendere la vita di questi sempre più precaria e infelice precludendosi uno dei motori dello sviluppo che è proprio il senso di appartenenza all’impresa dei propri dipendenti.

In questa situazione le prospettive sono negative e invece di prendersela con il mercato, che naturalmente sente puzza di crisi prima che ne parlino i giornali e quindi segue propri interessi, i politici dovrebbero iniziare a fare nuovi programmi e nuovi progetti nell’interesse dei propri elettori e non di oscure entità che governano e condizionano i governi.